I limiti del servizio pubblico

Quando i messaggi abbisognavano di supporto cartaceo, la Posta godeva di un redditizio monopolio col quale manteneva un apparato capillare. La diffusione del supporto elettronico ha messo in crisi l’estesa rete di uffici postali. Ai tentativi di razionalizzarla si obiettava che la Posta (ancora) faceva utili, provenienti però dai suoi servizi finanziari.

Quando i messaggi abbisognavano di supporto cartaceo, la Posta godeva di un redditizio monopolio col quale manteneva un apparato capillare. La diffusione del supporto elettronico ha messo in crisi l’estesa rete di uffici postali. Ai tentativi di razionalizzarla si obiettava che la Posta (ancora) faceva utili, provenienti però dai suoi servizi finanziari. Con la riduzione dei margini di Postfinance e con la scoperta dei trucchi contabili per obbligare Cantoni e Comuni a sussidiare più del dovuto il trasporto autopostale, l’intera Posta è ora in crisi. Da qui l’ipotesi – combattuta dalle banche – di autorizzarla ad agire anche sul mercato ipotecario. 

Storia analoga vale per un altro servizio pubblico per eccellenza, quello ferroviario. Dai tempi con personale in ogni stazione per vendere biglietti, dare col fischio di partenza, caricare e scaricare vagoni, fino alla crisi delle Officine di Bellinzona e alle FFS come maggior operatore immobiliare del paese. Intorno al servizio pubblico si fa spesso ideologia, di fatto difesa d’interessi, con la speranza di farne un’isola protetta dall’evoluzione tecnologica e dalle abitudini di consumo che modificano il lavoro. 
In difesa del servizio pubblico si argomenta con le sue prestazioni, anche se sottintesi sono spesso gli interessi di chi ci lavora più che degli utenti. Ovvio che un servizio postale svolto da attori in libera concorrenza fra loro farebbe scendere i prezzi nei centri urbani, dove la clientela abbonda e le tratte sono brevi, e li farebbe invece salire nelle zone discoste, dove nessuno sopporterebbe i maggiori costi per una minore domanda. A ciò si può rimediare vietando a concessionari concorrenti di discriminare categorie di utenti: come nelle telecomunicazioni.

Il crollo del ponte a Genova è ora accampato ad esempio contro soluzioni di questo tipo. Le inchieste diranno quanto hanno influito la ricerca privata del profitto, quanto l’inefficienza dello Stato nell’esercitare le competenze che aveva mantenuto per sé, e quanto la violazione del principio di non diluire le responsabilità suddividendole. Privatizzando male un servizio pubblico inefficiente si può cadere dalla padella nella brace. Pubblico e privato non sono in sé bene o male, molto dipende da altri fattori: dalla prassi in assunzioni e carriere all’esposizione a corruzione e clientelismo politico, per citarne un paio. Per cominciare, bisognerebbe distinguere la contrapposizione monopolio-concorrenza da quella pubblico-privato: facendone una matrice a quattro scenari. I monopoli pubblici o privati tendono a resistere all’evoluzione tecnologica. Si può rimpiangere un mondo dove il lavoro abbondava negli uffici postali e nelle stazioni. La conservazione di questo mondo avrebbe portato alle stelle il prezzo di francobolli e biglietti, ma con ben altre conseguenze.

Per avere i salari che abbiamo in Svizzera, molto più elevati dei vicini, dobbiamo avere anche una produttività più elevata. A soddisfare gli stessi bisogni deve cioè bastare il lavoro di meno persone, così d’avere più persone attive in altri settori che creano valore, come il turismo o l’industria d’esportazione. A gonfiare il servizio pubblico per effetto della crescita economica provvedono del resto già servizi dei quali è difficile aumentare la produttività, quali la sanità o l’istruzione. Certo, queste trasformazioni sono dolorose per chi, individui o regioni, il lavoro lo perde e si deve riorientare. Ma sono necessarie per non impoverire tutti: basta guardarsi in giro per il mondo. Quando mancano mercato e concorrenza, prevale la pressione politica per conservare l’esistente. 

L’esempio del Ticino in questi anni recenti è illuminante. Tanti posti di lavoro sono andati persi nel settore bancario e finanziario, o nella stampa scritta. Almeno quanti, in totale o in proporzione, negli uffici postali o in ferrovia. Ma per i secondi la politica si è mobilitata ripetutamente, per fare pressione su datori di lavoro pubblici. Per i primi invece no: come pretendere che lo Stato tenga aperti sportelli bancari o testate? Con buona pace per chi si ostina a credere che la politica, basta volerlo, possa contraddire le ovvietà economiche, la difesa di certi posti di lavoro è meno uguale di quella di altri. E questa è una buona ragione per contenere ragionevolmente il servizio pubblico. Una ragione fondata non su fantomatici interessi del capitale contro quelli del lavoro, ma sull’uguaglianza di fronte al dovere di contribuire tutti alla produttività e al benessere generale.

Mauro Dell'Ambrogio