Piena occupazione senza utopie

Due dati riguardanti la Svizzera sono stati pubblicati recentemente. Siamo, dopo l’Islanda, il Paese dove si lavora di più: in ore settimanali, annue o sull’arco di una vita. E da noi le offerte di lavoro sono attualmente più numerose delle persone in cerca di impiego. Non assorbono però i disoccupati con profili non corrispondenti a quelli cercati. Questi dati smentiscono la tesi utopica lavorare meno per lavorare tutti, accampata in passato da noi (per fortuna senza successo) e altrove (purtroppo per loro, con successo) per legiferare su durata del lavoro, età del pensionamento e vacanze. I fatti dimostrano che è vero il contrario: per lavorare tutti bisogna lavorare di più. Come mai?

Due dati riguardanti la Svizzera sono stati pubblicati recentemente. Siamo, dopo l’Islanda, il Paese dove si lavora di più: in ore settimanali, annue o sull’arco di una vita. E da noi le offerte di lavoro sono attualmente più numerose delle persone in cerca di impiego. Non assorbono però i disoccupati con profili non corrispondenti a quelli cercati. Questi dati smentiscono la tesi utopica lavorare meno per lavorare tutti, accampata in passato da noi (per fortuna senza successo) e altrove (purtroppo per loro, con successo) per legiferare su durata del lavoro, età del pensionamento e vacanze. I fatti dimostrano che è vero il contrario: per lavorare tutti bisogna lavorare di più. Come mai?

Il lavoro, come lo si intende in politica quando ci si lamenta che manca, non è fatica da distribuire, come i lavori domestici tra conviventi. La realtà del lavoro retribuito è un’altra. Se un comune ha un tot a disposizione per la manutenzione dei giardini, può assumere più giardinieri riducendone l’orario di lavoro; ma anche il salario, inevitabilmente. I giardinieri meno pagati verseranno meno imposte, con effetto aggravato dalla progressione fiscale. Con minor introito fiscale, il comune dovrà ridurre i posti di lavoro. Ciò vale non solo per l’impiego pubblico, ma per l’intera economia: meno reddito disponibile significa meno spesa che crea lavoro. Nel privato, si dirà, c’è anche il fattore profitto, più esaltato ideologicamente però che rilevante. Nell’economia reale e locale quasi tutto il valore creato finisce in massa salariale, incluso un equo reddito per l’imprenditore. Cosa poi succede sui mercati finanziari e su scala globale lo lascio spiegare agli specialisti, ma le alternative al demonizzato capitalismo si sono rivelate peggiori.

Il lavoro è creato dall’incontro tra due disponibilità e distrutto dalla loro mancanza: in ogni momento, con effetti moltiplicati nel tempo. La disponibilità di chi è disposto a pagare per una prestazione lavorativa (anche indirettamente, se compro il prodotto del lavoro di qualcuno); e la disponibilità di chi è disposto a lavorare a determinate condizioni. Il lavoro è distrutto se il potenziale datore di lavoro non ha da spendere; o se le condizioni d’impiego sono così misere (o le prestazioni sociali a chi non lavora così generose) che il potenziale lavoratore non è interessato. Dove abito, quello del dog-sitter sta diventando ben più di un lavoretto. Portando a passeggio i cani di persone troppo occupate professionalmente per farlo loro ogni giorno, con più cani alla volta, c’è chi diventa imprenditore con tanto di collaboratori e veicoli. E questo perché altri (1) lavorano tanto da non potersi occupare sempre del cane e (2) guadagnano abbastanza da potersi pagare quel servizio. Fatto da persone che (e qui sta il punto) difficilmente saprebbero rimpiazzare i proprietari del cane come specialisti in ospedale o in banca. Forse come raccomandati inefficienti, ma in questo sta la differenza tra un’economia sana e una parassitaria che impoverisce tutti. Questo non significa che si deve tutti lavorare tanto.

È però nell’interesse generale che possa farlo chi lo vuole, perché il lavoro crea ricchezza e la ricchezza genera lavoro retribuito. Ricchezza in senso lato è creata ovviamente anche dal volontariato, dal lavoro domestico, dalla cura del proprio giardino. Ma il lavoro retribuito è lo strumento sociale che da sempre e meglio permette la ripartizione di ricchezza fondata sul consenso. Ci sono altri modi per ripartire la ricchezza, quali l’utilizzo comunitario dei beni e l’imposizione fiscale tramite lo Stato. Entrambi applicabili fino ad un certo grado, oltre il quale diventano fonti di abusi, storture e clientelismi peggiori di quelli pure insiti nel mercato del lavoro. L’utopia del lavorare meno per lavorare tutti è come il disarmo universale o il comunismo: irrealizzabile. A differenza però di altre, un’utopia neppure auspicabile, in una società nella quale malattie, incidenti e degenerazioni per cattivo uso del tempo libero fanno ormai più danni che malattie e incidenti professionali. La tecnologia non fa sparire il lavoro, lo rende meno logorante. E non è certo che vedere il lavoro come una schiavitù da evitare ci renda più felici che continuare considerarlo strumento di dignità e realizzazione. 

Mauro Dell'Ambrogio