Di mele, vermi, lombrichi e bilaterali

Ogni giorno il volume degli scambi di merci tra Svizzera e UE è di circa un miliardo di franchi, 1 franco su 3 guadagnati in Svizzera sono legati al mercato europeo, dei 26 Cantoni svizzeri 18 confinano con uno Stato UE, nel 2017 il 53% delle esportazioni svizzere (circa 117 miliardi di franchi) erano dirette verso l’area UE e il 71% delle importazioni (circa 133 miliardi di franchi) provenivano dall’UE. Qualche semplice dato, tutti facilmente reperibili in internet.

Tra gli accordi bilaterali, quello di libero scambio del 1972 ha permesso di abolire dazi doganali e contingenti tra Svizzera e UE per i prodotti industriali. Quello relativo agli ostacoli tecnici al commercio, in vigore dal 2002, ha invece permesso il reciproco riconoscimento di valutazioni della conformità dei prodotti industriali, così che i produttori svizzeri possano godere delle medesime condizioni di accesso ai mercati dei loro concorrenti dell’UE, ovvero risparmi di tempo e denaro per le nostre imprese. Anche il tanto vituperato accordo sulla libera circolazione delle persone – che certamente non provoca unicamente conseguenze da «rose e fiori» (poi però bisognerebbe votare a Berna le misure fiancheggiatrici e non opporsi alle stesse, come fa in blocco l’UDC) – è comunque importante per la Svizzera, visto che in molti settori (turismo, agricoltura e industria) la nostra economia dipende fortemente dalla manodopera straniera. Semplici constatazioni, che ben ci dicono quanto la nostra economia e dunque il benessere del nostro Paese, dipendano dai rapporti con l’Unione Europea. Insomma, piaccia o no quel mercato di circa mezzo miliardo di persone ha una sua chiara valenza per il nostro Paese.

Nella prossima sessione le Camere federali affronteranno il dibattito sull’iniziativa popolare dell’UDC che chiede la fine della libera circolazione delle persone. Se questa iniziativa venisse un giorno accettata dal popolo, la nostra Confederazione avrebbe un anno per negoziare la fine dell’accordo con Bruxelles e, se non si dovesse trovare una soluzione, il Consiglio federale dovrebbe uscire dall’intesa nel mese successivo, con il rischio di far cadere l’insieme degli accordi bilaterali.

Scusate, lo ammetto, sono nato nella capitale e si ironizza che a Berna prima di una rotonda trovi il cartello «massimo 30 giri e poi uscire» ma quale è il piano B dell’UDC? Una sorta di «Brexit incontrollata», Bilaterali «à la carte» o forse «flambé»? E se avessero realmente un piano B, perché da primo partito svizzero non hanno mai rivendicato il Dipartimento degli affari esteri (ad esempio quando è entrato in Governo Ignazio Cassis)? Insomma, se per loro tutto va ridotto a un discorso di arrivi in massa, immigrazione controllata, contingenti e difesa del patrio suol, perché non prendere di petto la situazione e al posto che lanciare iniziative popolari assumersi direttamente determinate responsabilità in seno al Consiglio federale, senza delegarle a «sinistroidi ed europeisti» come li chiamano loro?

Pazienza, forse tra farlocchi rischi di adesione strisciante all’UE, decantate intenzioni di «Alleingang», mele, vermi e lombrichi, bisognerebbe semplicemente avere l’onestà di dire che la via bilaterale resta imprescindibile, senza appiccare il fuoco e mandarla in cenere.

Stefano Steiger, candidato al Consiglio nazionale, Corriere del Ticino, 2 settembre 2019