Sì alla scuola che verrà, sperimentare per sapere

In questi giorni, oltre agli articoli sulla stampa scritta, mi sono letto i rapporti di maggioranza e minoranza della Commissione scolastica sul credito destinato alla sperimentazione de «La scuola che verrà» (SCV). Come spesso succede, vi sono approcci e visioni differenti, quasi antitetici; rilevo inoltre toni eccessivi, pregiudizi, ignoranza e cattiveria. Per un ambito importante come la scuola, che dunque si ripercuote, più in generale, nel futuro del nostro Paese, occorre ben altro.

Leggo, ad esempio, articoli al limite dell’arroganza e della supponenza di chi difende a spada tratta la SCV e sbeffeggia i contrari (sul CdT, a firma di Ivano Fontana; sono articoli che creano poi l’effetto contrario); oppure, testi che confondono (volutamente?) le carte in tavola, che raccontano bugie e inesattezze. Emblematico, in questo senso, l’articolo recente di Lorenzo Quadri sempre sul CdT, in cui (tra le altre cose, non tutte sbagliate invero) racconta sciocchezze sulla differenziazione pedagogica, che a livello di scuola elementare si pratica da decenni.

Da parte mia, nel mio modo di pensare ed agire, di docente e cittadino, metto in pratica un approccio diverso. Senz’altro improntato allo spirito critico, ma sempre costruttivo nell’affrontare temi e nuove proposte e rispettoso delle idee altrui, anche se per nulla condivise. In fondo, questo è uno degli obiettivi più importanti della scuola: formare cittadini che possano operare scelte nella vita con consapevolezza e assunzione di responsabilità. A mio avviso è lodevole il fatto che il DECS e il Governo abbiano promosso questa riforma. La scuola deve continuamente aggiornarsi, sia con misure ad hoc e mirate, sia con riforme, visioni ed intendimenti più generali, come nel caso in oggetto.

Detto ciò, non posso di certo ritenermi un accanito sostenitore della SCV. Fortunatamente, rispetto al progetto iniziale, parecchi aspetti sono stati modificati e migliorati. A questo servono le consultazioni. Soprattutto, il Gran Consiglio ha giustamente preteso che la sperimentazione avvenisse su due modelli: quello originario del DECS e quello scaturito dal rapporto di maggioranza della Commissione scolastica, che prevede la suddivisione degli allievi nei laboratori/atelier nel secondo biennio della scuola media in base a competenze e potenzialità (e non alla casualità).

Un’altra sacrosanta modifica promossa ed accettata dal Gran Consiglio è che la valutazione scientifica della sperimentazione avvenga ad opera di un’entità esterna indipendente, proprio per evitare che promotori e controllori siano le stesse persone. Ma perché, proprio a questo proposito, i contrari al credito fanno il processo alle intenzioni dicendo che la sperimentazione equivarrà all’attuazione della SCV così come presentata? È un agire assurdo e scorretto. Trovo invece vero il contrario. Sperimentare, innanzitutto, non significa trattare gli allievi come cavie: vuol dire promuovere con professionalità situazioni didattiche e pedagogiche diverse, come già si fa con regolarità; significa non solo basarsi sulla teoria, ma anche sugli effettivi risvolti pratici che ne conseguono, correggendo (continuamente) il tiro laddove necessario. Insomma, come direbbe Luigi Einaudi, «conoscere per deliberare». E proprio la conoscenza è un aspetto essenziale in ambito scolastico, che deve ritornare protagonista e non accantonato (come mi sembra di intuire in alcune occasioni formative vissute di recente). Sarebbe un grave errore. La scuola ha come compito prioritario quello di istruire, di fornire occasioni e dinamiche didattiche per trasmettere le conoscenze scolastiche essenziali agli studenti. Occorre (ri)definire con chiarezza le priorità, ossia gli obiettivi di padronanza che tutti devono acquisire, e pure gli obiettivi più ambiziosi, di sviluppo, per gli allievi con maggiori competenze. Qui il discorso dev’essere chiaro: ad ognuno devono essere assicurate eguali condizioni e pari opportunità di partenza; ma non di arrivo. Per permettere una crescita generale di ogni allievo, è indispensabile mettere in gioco, giorno dopo giorno, come già scrivevo qualche tempo fa sempre sul CdT, una serie di valori insostituibili (ma troppo poco considerati dalla SCV e dai piani di studio della scuola dell’obbligo): perseveranza, sacrificio, impegno, capacità di rialzarsi dopo gli insuccessi, costanza, predisposizione all’ascolto e all’attenzione. Alzando continuamente l’asticella e sviluppando negli allievi uno spiccato senso di responsabilità individuale, quanto mai essenziale nella vita. Il tutto, e questo sono i docenti a crearlo, in un clima privilegiato di emozioni, passioni, interesse nei confronti dell’apprendimento e della scoperta: una palestra, cioè, di esperienze uniche ed arricchenti.

In conclusione, la SCV e i piani di studio della scuola dell’obbligo portano con sé buone idee ma non sono immuni da criticità e/o punti deboli; soprattutto, però, hanno il merito – per chi assume un atteggiamento critico ma costruttivo – di sollevare (contro)proposte, discussioni (anche accese) e proporre alternative. Dunque, solo un sì alla sperimentazione in votazione il prossimo 23 settembre permetterà di migliorare continuamente il sistema scolastico ticinese, privilegiando anche soluzioni innovative. Un no significherebbe invece buttare all’aria quanto fatto in questi anni e ripartire da zero, restando nell’immobilismo. Sarebbe deleterio, ed è proprio ciò di cui non hanno bisogno la scuola e la società ticinese.

Aron Piezzi, sindaco di Maggia e docente di scuola elementare

Corriere del Ticino, 29 agosto 2018